Buonarroti e Papini
Pubblicato in: La Fiera Letteraria, anno IV, n. 22, p. 7.
Data: 27 maggio 1928
Giovanni Papini ha curata una scelta delle Rime di Michelangelo, che sembra singolarmente opportuna nel momento presente, in cui si va in cerca d'una poesia formalmente scabra, liberata dal discorso poetico tradizionale e diffidente verso ogni splendore del linguaggio. E' superfluo disegnare ancora, sia pure di passata, la storia della tecnica verbale da Carducci fino ai post-dannunziani, che se da un lato è stata la storia della dissoluzione progressiva del linguaggio poetico, quale lo avevano consegnato Monti e Foscolo al Manzoni e al Carducci, che vi immise il realismo del risorgimento e poi, raffinato, lo trasmise all'estetismo, dall'altro è stata anche la storia di una serie di tentativi per conferire al linguaggio di tutti i giorni una nuova nobiltà poetica o almeno un timbro nuovo, tutto rorido di sensitive schiettezze e di musicalità delicate e trasparenti. Pascoli e i crepuscolari, diffidentissimi verso la tradizione del linguaggio poetico, che fu chiamata anche apertamente retorica, ebbero specialmente il compito, portando così alle estreme conseguenze i pricipii del romanticismo, di scoprire per la poesia un linguaggio il più possibile vicino a quello parlato, senza peritarsi anche di attingere dal dialetto, come attingevano dal folklore e dalla sensazione immediata e quotidiana i motivi della loro poesia. Una tradizione tutta propria, è vero, ma non del tutto persuasiva, il Pascoli l'andò per conto suo cercando nei luoghi meno tradizionali, dalle parabole del Vangelo agli spunti di melica greca; più che una tradizione formale, impossibile a trovarvi, fu quella una tradizione di contenuto, o alpiù di sentimenti. Fatto sta che oggi ci troviamo in un momento abbastanza caratteristico riguardo alla poesia; e cioè che, mentre i tentativi, individualmente più o meno felici, di scoprire un nuovo linguaggio poetico antitradizionale, sono falliti e vanno fallendo, pure non sí sa e non si vuole riassumere in pieno, con un atto che sarebbe certo coraggioso ma i cui risultati appaiono già in precedenza poco persuasivi, l'eredità della nostra tradizione, intendo dal lato tecnico, per la poesia. Chi, come Gerace, s'è schierato apertamente per cotesta tradizionalità o, come Soffici, che pure ha vissuto l'esperienza della poesia modernissima, ha cercato di ricondurre nell'endecasillabo sciolto del primo romanticismo italiano, quello del Foscolo specialmente, gli spiriti elegiaci e gnomici della nostra ultima illustre stagione poetica, non hanno incontrato, come si sa, un favore incontrastato; d'altra parte, a coloro che vanno in cerca di libertà metriche e d'un linguaggio aderente alla loro ispirazione, diciam così, giornaliera, come a quelli che, ad esempio Saba e Ungaretti, tentano di impoverire d'ogni sonorità il verso e la parola per ridare all'una e all'altra un timbro parlato e una musicalità tutta interiore e direi psicologica, non ha arriso sorte più splendida, per quanto sia diffusa, specie tra i giovani, la convinzione che una ripresa poetica sia da cercare qui più che altrove. Un recentissimo «omaggio a Saba» da parte di alcuni critici e poeti giovani è da questo lato molto significativo.
GIOVANNI PAPINI
senza il suo divino nitore) o dall'ottava del Tasso e del Marino, dai quali si traeva, col favore dell'estetismo, la mollezza rotonda e piena, così colorita e decorativa. Si dice che oggi una poesia di pura decorazione è poesia mediocre, e il vicino, ancora vicino esempio del D'Annunzio lo prova senza fatica. Per ciò si diceva, che, le «Rime» cadono a proposito. Esse stanno forse per trovare un terreno più preparato, e meglio disposto; si da far sperare che, dopo ben dodici edizioni, quante ne ha appunto avute, in ventisette anni soli, il Novecento, come nota il Papini, questa sia la volta buona. Ma qualcuno dirà: perchè volgersi a Michelangelo, che attinse al Petrarca, dal lato formale, quando c'è il Petrarca, ch'è modello di gran lunga migliore? Semmai, Michelangelo sarebbe un exemplum vitandum. La sua poesia é poi quella d'un petrarchista, e sta al suo modello come un giorno immutabilmente sereno a un cielo burrascoso. Si può rispondere che appunto per questo Michelangelo è più vicino a noi di Petrarca, riguardo al linguaggio. Quella serenità è inattingibile, e irripetibile; mentre la scabra e rotta materia verbale delle «Rime», con` la loro povertà di bei giri strofici compiuti e armoniosi, e con quella interna ricchezza di pause e fratture, che danno alla composizione, il senso di un blocco ancor ruvido, a tutto vantaggio di una profonda e improvvisa schiettezza di accenti, per le esigenze attuali della nostra poesia può essere un esempio più vicino, anche per liberarla da quella mollezza fragrante e voluttuosa che la corrompe più di quanto non la preservi, com'è di comune esperienza, in vicinissimi esempi.
Dette queste cose, che hanno un valore quasi solo personale, e quindi anche probabilmente arbitrario, ci sembra inutile ripetere ciò che s'è scritto sulle «Rime», di cui, come ci ricorda il Papini, hanno discorso a lungo parecchi stillacervelli di casa nostra e di fuori e ne hanno dette, spesso, di quelle così badiali e fantastiche che se il mio Buonarroti tornasse quaggiù dovrebbe ribrontolar la sua terzina:
Amor, le muse e le fiorite grotte,
mie' scombicchieri a' cemboli, a',cartocci
agli osti, a' cessi, a' chiassi son condotte.
Aiutami un po' te semmai traligno,
Michelagnolo mio da Settignano
che stavi a tu per tu, col tuo macigno
sudato e gobbo, col mazzuolo in mano.
E più oltre:
Non t'incresca se a te vo' accompagnarmi,
ombra viva e mendica che si duole.
Nella prefazione alle «Rime» egli considera «la poesia di Michelangiolo un'ausiliaria per la totalità vagheggiata o un alibi della sua impotenza». Chi ricorda alcune sue idee sul genio se le ritrova in questa prefazione, in cui è detto anche che «il Buonarroti, fra tutti quelli che conosciamo, è colui che più s'è avvicinato all'idea massima dell'artista integrale». Un genio completo ha la tendenza a diventare, egli dice, un Briareo, un policefalo; e alla poesia Michelangelo «affidò quel che gli pareva di non poter manifestare compiutamente coi massi di marmo e le facciate di pietra: la soave tortura dell'amore, il pensiero della doppia morte, il rimorso della vita sciupata». E' una spiegazione per via psicologica; ma è possibile ritenere che oltre cotesta ve ne sia un'altra. La scontentezza per l'opera propria, sentimento essenzialmente moderno, che Dante non provò se non in modo fuggitivo, e a un tempo la tendenza a versarsi in più forme e non solo in una, che tutte le riassuma, come in Dante avvenne, credo possa trovarsi nel fatto di quella profonda scissura morale, che sconosciuta nel Trecento poetico e pittorico fino a Masaccio, si verificò per la prima volta nel Rinascimento, e fu iniziata dal Petrarca. Con lui, e dopo di lui sempre più chiaramente e dolorosamente, teologia e filosofia, religione e pensiero, scienza e natura — per adoperare in termini d'opposizione concetti che il Trecento non conobbe mai disgiunti — si individuano in modo che ciascuno comincia ad operare in senso proprio, ed esclusivo. Sorto il dissidio, la prima lacerazione seguitane non poteva non essere tragica e disperata; nè l'uomo, nessun uomo, per quanto grande fosse, avrebbe potuto risolvere in una rapida e totale unità i termini opposti, ormai accampati l'un contro l'altro nella coscienza degli individui, com' era in quella del tempo. Michelangelo fu il testimone più alto di cotesta battaglia: quegli che diede una voce e un accento a questa guerra, della quale fu al tempo stesso vittima e assertore. E' stato osservato che il carattere più evidente dell'opera michelangiolesca è lo sforzo: a me pare che cotesto sforzo sia da intendere come immanente bisogno d'uscire dal lacerante dissidio di una personalità che chiede con spasimo e malinconia una sintesi più alta, non più dantesca ma moderna, in quanto i termini onde dov'esser costituita sono ben altri da quelli che avevano creata la personalità di Dante.
Per tal modo, la voluta incompiutezza dei «Prigioni» di Boboli è, per così dire, in funzione di uno spirito creatore che non può mai calarsi in maniera compiuta, senza residui, in una forma totalmente realizzata. La tragica insonnia dello spirito di Michelangelo aderisce momentaneamente a una realtà; ma come la tocca la supera. Incalzato da questa ebbra sete di infinito e di Dio, nessuna cosa umana è atta a dissetarlo pienamente, neanche la Bellezza, in cui pure il Rinascimento vagheggiò di trovare la propria pace. La Bellezza recava in sè un'ombra, la morte; e Michelangelo sentiva che anch'essa sarebbe caduta dinanzi alla faccia di Dio.
Le «Rime» sono il testamento di questi alti pensieri; i quali sì svolgono su un piano che si potrebbe chiamare di graduale elevazione a Dio, attraverso la bellezza. Pensiero dominante e drammatico di quest'ascensione è la morte: come lo spirito di Michelangelo s'avvicinava a Dio moriva in lui l'uomo antico, prigione delle passioni terrene, e sorgeva l'uomo nuovo. Le poesie quindi accompagnano l'artista lungo questo cammino; e vanno considerate come commento dell'arte e confessione, testimonianza del suo animo in travaglio. Perciò egli è, dopo Petrarca, il secondo poeta moderno.
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